Jim guarda lo schermo posto davanti a sé sul volo che lo riporta da Parigi a New York.
«Si ritrovò con gli occhi fissi sul più vicino dei piccoli schermi posizionati in alto, appena sotto la cappelliera: parole e numeri che cambiavano di continuo con il procedere del volo. Altitudine, temperatura esterna, velocità, ora di arrivo.»
Ipnotizzato, segue ogni informazione.
«Aveva sonno, ma continuava a guardare.»
Non è uno schermo televisivo o cinematografico. Riporta dati, geolocalizza posizioni. E’ uno schermo digitale, del digitale, nella “digitalità”. Lo guarda, lo osserva, ne rimane imbrigliato.
Quando poi l’apocalisse elettronica spegnerà il mondo sarà proprio la sottrazione dello schermo a definirne i caratteri apocalittici:
«E poi fissa lo schermo nero.»
La partita di Football che non viene trasmessa. Lo schermo che non riporta più i data. Non permette di caricarne di nuovi, di estrapolarli dalla carne viva del mondo digitale, di elaborarli in questa simbiosi che è la mente connettiva e collettiva (si legga: intelligenza artificiale) nella nuova dimensione uomo/macchina.
Il silenzio forse è un racconto morale, o almeno sembra rinchiudere un giudizio morale. Sembra perché non è diretto, non concede facili interpretazioni (si conta appena un fugace accenno ai «tossicodipendenti digitali», a un fantomatico «governo degli algoritmi» e a una futuristica «guerra di droni»). Non è diretto, roboante, pure un poco pacchiano, eppure così intenso, come il finale di Fuga da Los Angeles di John Carpenter, con Snake Plissken, il protagonista, che letteralmente spegne con un interruttore il mondo facendo collassare tutti i satelliti preposti alla distribuzione di energia elettrica (e fumandosi finalmente una sigaretta).
Devo ammetterlo, a me il libro non è particolarmente piaciuto, non ho trovato la necessità e l’ispirazione di altre opere di DeLillo. Non ho trovato la necessità di raccontare questo avvenimento, questi personaggi. Non sono rimasto impressionato dal minimalismo dell’opera. Eppure qualcosa di significativo questa storia ce la racconta. DeLillo costruisce una sorta di favola morale. Una distopia dal sapore etico. E punta l’attenzione proprio sugli schermi. Come abbiamo visto, il libro si apre con uno schermo e si chiude con uno schermo nero. Non ci racconta nel dettaglio tutta la tecnologia che va in tilt, ma si sofferma su questa specifica tecnologia. Figlia del digitale, che ha moltiplicato gli schermi e reso schermo quasi ogni superficie e device… dai tabelloni pubblicitari, ai telefoni. È questa civiltà della moltiplicazione delle informazioni, dei data, che subisce il blackout. DeLillo fotografa la paura di una società completamente alienata in cui sono i data e la loro estrazione a disumanizzare i rapporti sociali e affettivi. Gli schermi digitali sono allora gli emblemi di un surrogato della vita passato attraverso la continua, incessante, massiva e “intelligente” estrazione di data e loro successiva elaborazione tramite piattaforme, social, trasmissioni, device. La quotidiana operazione di comunicare diviene alienazione di sé e dei propri contributi culturali, sociali, economici. L’apocalisse è quindi già nello schermo.
In tutto questo però De Lillo, forse senza volerlo (non c’è mai un accenno diretto), tratteggia un passaggio liminale. Quello della fine degli schermi, della loro obsolescenza. Forse senza saperlo, getta un grido disperato verso l’ignoto. La società degli schermi impone un’alienazione diversa da quella tratteggiata da Marx, definendo così i tratti di un nuovo capitalismo, quello algoritmico e dei data. Eppure si tratta di un mondo che ancora regge ad alcune letture e analisi. In fin dei conti è ancora il mondo dello schermo cinematografico e di quello televisivo (gli amici che aspettano la finale del Super Bowl). Qualcosa di famigliare rimane. L’emergere delle tecnologie XR, il potenziamento della rete con il 5G e delle nanotecnologie, potrebbero portare a un’accelerazione verso la costruzione di un modello di spatial computing (uno dei rami più promettenti e dell’informatica contemporanea) che si serve di proiezioni tridimensionali olografiche. Ecco questo può davvero cambiare le cose. Non solo l’aspetto tecnologico della questione, ma soprattutto quello cognitivo. Lasciandoci davvero impreparati verso le nuove forme di partecipazione, scambi e comunicazione che potrebbero aprirsi.
Quando l’era degli schermi, che nasce nell’800 e che si è rinsaldata nel ‘900, sarà definitivamente passata, allora una rivoluzione e persino un’apocalisse (nel senso etimologico primo del termine) sarà inevitabile.
DeLillo dissemina nel corpo della narrazione i tratti caratteristici della “digitalità”:
- gli schermi e la loro possibile obsolescenza come situazione di confine tra la civiltà macchinica e la piena affermazione di quella digitale;
- il bisogno di futuro che l’accelerazione della svolta tecnologica digitale ha impresso alla nostra società. Il campionario di casi e possibilità e di proiezioni su ciò che sarà (il libro si apre con una citazione “futurologica” di Einstein) che caratterizza il nostro presente minacciato da una continua spinta in avanti e un perenne senso di inadeguatezza e transitorietà. Un bisogno di futuro che è anche la necessità di un racconto che sia in grado di accogliere la complessità. Una necessità che può trasformarsi in una forma patologica e paranoica di informazione come quella complottistica (è il personaggio di Tess che inizia a delineare scenari sempre più post-scientifici);
- e – decisamente collegato a questo – la genesi di una società dell’emergenza. Dove tutto cangia repentinamente. Avvenimenti e fatti si realizzano e si espandono con il ritmo della società della connessione. I virus, le calamità naturali e climatiche, i rovesciamenti politici, le instabilità sociali ed economiche, sono tutti pezzi di un mosaico in cui l’emergenza si fa sistema, diviene elemento effettivo dell’essere superando il mito della stabilità.
DeLillo non concede facili risposte, intorno a un avvenimento non probabile ma possibile, fa emergere tesi, supposizioni, stati d’animo, pennella velocemente un paesaggio che respira del nostro presente, interrogando più che rispondendo.
…….
Don DeLillo
Il silenzio
Einaudi
Traduzione: Federica Aceto