Sorveglianza e colpo di stato digitale. Zuboff docet

Sul nuovo numero di “Internazionale” si può trovare un importante articolo di Shoshana Zuboff dal titolo Colpo di stato digitale. Zuboff è una famosa studiosa, professoressa alla Harvard Business School, autrice di un libro “enorme” uscito fortunatamente anche in Italia dal titolo Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri (Luiss University Press). Il pezzo, uscito originariamente sul “New York Times”, fotografa la situazione attuale nel confronto tra democrazia e potere delle grandi aziende di ICT.

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Fondamentalmente per la Zuboff viviamo in una “società della sorveglianza” che è il risultato dell’espansione del potere delle grandi compagnie digitali. Si tratta di un vero e proprio “colpo di stato cognitivo” orchestrato in 4 fasi:

 

  1. Appropriazione dei diritti cognitivi.
  2. Aumento della diseguaglianza cognitiva (la differenza tra ciò che posso sapere io e ciò che si puo’ sapere di me).
  3. Caos cognitivo (la fase in cui ci troviamo).
  4. L’egemonia cognitiva diventa istituzionale (ciò che dobbiamo prevenire).

 

Zuboff parla di un “capitalismo della sorveglianza” sottolineando più volte come tra società della sorveglianza e democrazia non ci possano essere legami. O una o l’altra.

L’analisi è chiara e dettagliata. Ci sono solo alcuni elementi su cui mi sento di muovere una critica.

Per far capire ciò che sta accadendo Zuboff rimanda al modello della società industriale dei primi del ‘900, a quella società macchinica che è il grande antecedente del capitalismo della sorveglianza.

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Eppure questo parallelismo non riesce a convincermi. In quel momento storico ci sono ancora i margini per una negoziazione, per un riformismo che sospinga il potere del capitale a trovare accordi con il mondo del lavoro. Ci sono spinte che trovano il tempo di assestarsi. Oggi l’accelerazione impressa dalla cultura digitale non lo permette più. O almeno io vedo pochi spiragli. Ma non si tratta solo della spinta tecnologica e dell’accelerazione tecnologica, ma anche della spinta culturale di un capitalismo dei data che si struttura, destruttura e ristruttura in tempi velocissimi. Che non dà il tempo di organizzarsi, né ai lavoratori, né agli stati. Zuboff riporta diversi casi di interventi, sia negli USA, sia in GB che in Europa, in cui i governi provano a dare un freno e regolamentare questo mercato impazzito dei data e degli algoritmi. Senza ricordare che appena si andrà davvero a toccare il modello di business di questi giganti scatterà inesorabilmente la minaccia del lavoro. Alla proposta di Zuboff di eliminare “gli incentivi finanziari che premiano l’economia della sorveglianza”, mi immagino governi senza forme di welfare universale che si ritroveranno a dover decidere della sorta di centinaia di migliaia di posti di lavoro e quindi di famiglie. Non si tratta quindi della spinta di lobby contro l’idealismo di certi governi. Ma di un duello in cui uno dei pretendenti gioca con le armi spuntate.

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Per Zuboff Facebook, per esempio, rappresenta una “gigantesca macchina da guerra pubblicitaria” e “un luogo di sterminio della verità”. Dimenticando come questo ruolo lo abbia ereditato da Hollywood. Se si raccontasse la storia di Hollywood a partire dai dati economici, ecco che allora tra forme illecite di concentrazione industriale e commerciale, riciclo di denaro sporco, operazioni di trasfigurazione dell’informazione, creazione di immaginari propagandistici… ecco che avremmo una storia diversa. Una storia del cinema (o meglio, di certo cinema) legata ad interessi industriali nella costruzione di un “capitalismo a qualunque costo” dove gli alti principi liberisti si scontrano sul campo del denaro a ogni costo, meglio ancora se concentrato in poche mani.

Tra il capitalismo industriale, delle macchine fordiste e quello della sorveglianza c’è quello pubblicitario degli anni ’60-’80 che apre le porte al discorso sulla informazione che oggi è esploso. E forse potremmo citare anche un capitalismo dell’emergenza che, dalle torri gemelle in avanti, non fa altro che veleggiare tra decreti urgenti e un’informazione focalizzata sui dettagli e non sui grandi quadri.

Senza contare che non sarà facile dare seguito alle seppur meritorie regolamentazioni che gli stati democratici stanno tentando sul tema dei dati, nel momento in cui gli stessi stati hanno un brivido di eccitazione ogni qual volta riescono a chiudere accordi con i grandi colossi per un centro di ricerca, un contratto e così via. La solita doppia faccia del capitale. Così come sarà difficile costruire modelli scientifici e tecnologici “liberi” nel momento in cui i centri di ricerca delle grandi aziende dell’ICT concentrano tra le proprie fila i migliori studiosi e danno l’assalto a ogni conferenza e rivista scientifica con i loro draft, paper e essay.

Cosa ci rimane allora, arrenderci? No, ma temo che sperare nel valore salvifico del riformismo non sia la strada giusta. Forse nel concetto di “capitalismo della sorveglianza” non sarebbe da mettere in crisi solo la “sorveglianza” ma il modello stesso del “capitalismo”. Forse bisognerebbe lavorare all’emergere di nuovi pensieri politici (a partire da una seria valutazione di ciò che significa e implica il concetto stesso di “digitale”), in grado di vedere il quadro nel suo insieme e non di tentare di sospingere il capitalismo ora da una parte ora dall’altra attraverso accorgimenti di scarsa gettata. In fondo è quello che l’Europa ha dimostrato di saper fare meglio: pensare, negoziare, elaborare pensieri politici di alto livello (così come, ahimè!, anche di infimo livello… va detto!).