Ad un anno dalla morte la National Gallery of Art di Washington (19 luglio – 24 agosto) rende omaggio al maestro del cinema Michelangelo Antonioni. Un omaggio importante che spinge ad una riflessione sul cinema e la sua scomparsa e su come Antonioni abbia, con il suo sguardo anticipatore e originale, intrecciato con il medium e la società una fondamentale “critica”.
Quando ancora si rifletteva d Neorealismo, Antonioni spiazza tutti con un giallo gelido, Cronaca di un amore (1950), memore della lezione di Marcel Carnè, ma soprattutto capace di analizzare con una forma nuova, ellittica, visivamente innovativa, una borghesia – quella del nord Italia – captata in un momento fondamentale di cambiamento. Nello stesso anno in cui la Nouvelle Vague esplode – il 1960 – quando i giovani registi decidono di assumere il controllo dell’immaginario cinematografico, è il “vecchio” (allora più che quarantenne) Antonioni a spiazzare ancora una volta tutti con L’avventura, un film che attira a sé le più feroci e le più lusinghiere critiche di tutti i tempi. Con L’avventura Antonioni diviene il capofila di un cinema nuovo, nella grammatica, nelle forme e nei temi. A chi gli imputa i pochi studi sociologici, Antonioni risponde con una trilogia – L’avventura, La notte (1961), L’eclisse (1962) – che da senso a quanto Gilles Deleuze affermava: che il cinema è un atto filosofico che si serve di suoni e immagini per definire il proprio pensiero. Antonioni interroga la realtà, pone interrogativi al paesaggio, sfiora gli enigmi e nel fare ciò realizza un vero e proprio percorso filsofico/cinematografico, senza servirsi del cinema come mezzo o macchina, ma come una vera e propria forma di pensiero. Così per Il deserto rosso (1964) intuisce che per parlare di una nuova fase industriale non può che servirsi del suono elettronico e di un cromatismo irreale: se la realtà cede al mondo delle immagini, allora il cinema ha il compito di investigare prorpio la forma delle immagini del mondo. Una forma che tende a scomparire di fronte a chi legge il reale ancora come traccia (Blow up, 1966) e che “esplode” in un senso incontrollato in Zabriskie Point (1970).
Il mondo globalizzato, reso senza luoghi o con iperluoghi (secondo la definizione di Marc Augé), vissuto non attraverso l’esperienza ma attraverso l’immagine video è compiutamente in Professione:reporter (1975). Intanto, lasciandosi come al solito, alle spalle discorsi critici e teorici, realizza il primo film girato con telecamere ad alta definizione. Non importa che Il mistero di Oberwald (1980) non sia un film riuscito… importa il sentire di un regista davvero in sintonia con il proprio tempo e sempre affacciato verso il futuro, un regista che gira un videoclip (Fotoromanza di Gianna Nannini) facendo ampio uso del chroma key e uno spot pubblicitario per la Renault 9 usando la computer grafica e che pensa il cinema in prospettiva di un cambiamento sociale inevitabile e che puntualmente si è avverato. Il cinema con Antonioni ha registrato la sua maturità e il suo declino, ha cavalcato la parabola del suo destino. E allora omaggiare Antonioni significa davvero omaggiare un tempo, quello del cinema, che non è più il nostro e un cinema che come ultimo atto ha testimoniato la sua ri-locazione prima, la sua trasformazione e alla fine la sua definitiva inclusione in un’altra “cosa”. A noi ora il suo destino…