Mai la definizione di “live” ha avuto un suono tanto ironico, tanto smaccatamente fasullo e, francamente, anche decisamente lugubre… mi riferisco alla nuova turnè di Whitney Houston, si proprio lei la cantante diventata famosa negli anni ’80 e ’90 e deceduta nel 2012.
Come già era accaduto per Ronnie James Dio e persino per Frank Zappa si è deciso di “riesumarla” per una serie di concerti olografici in cui la cantante prende le forme di un’immagine tridimensionale che balla, canta, dialoga persino con il pubblico, attorniata da veri musicisti, coristi e ballerini e su di un vero palco, con tanto di trovate sceniche spettacolari. Un’immagine olografica che riempie, più che un palco, una sorta di vuoto sociale.
Alle origini del cinema qualcuno si pose il problema di avere per sempre immagini realistiche di persone che a un certo punto sarebbero estinte. Un problema etico che qui sembra ormai saltato completamente. Tra l’altro, direi, non si tratta solo di un problema etico ma persino di buon gusto. A essere accondiscendente si potrebbe pensarlo come una sorta di nuovo modello cinematografico… condivido con un pubblico una rappresentazione… ma continuo a pensare che un conto è celebrare il proprio idolo guardando film, documentari, ascoltando la sua musica, un conto è predisporre un dispositivo che, in qualche modo, illude che sia ancora tra noi. Si attua così un un salto nel buio dei confini tra ricordo e presenza continua. Una linea sottile e sensibile tra vita e morte, ricordo e oblio. Non mi voglio addentrare in questi aspetti e vi rimando a un libro che su questo tema attiva più di una riflessione e alcune letture davvero interessanti e profonde: Davide Sisto, Ricordati di me. La rivoluzione digitale tra memoria e oblio (Bollati Boringhieri).