Paesaggio (politico) nel cinema italiano

Roy Menarini e Giovanni Spagnoletti hanno da poco fatto uscire uno speciale dal titolo “Forme della politica nel cinema italiano contemporaneo” sul numero 23 di “Close up” (Kaplan). Di seguito trovate mio intervento:

Paesaggio (politico) nel cinema italiano

Vorrei affermare che esiste un cinema politico che si svolge (anche) attraverso l’utilizzo dell’ambiente e del paesaggio, ed esiste certo cinema che proprio nell’utilizzo del paesaggio diviene politico, afferma un atto politico. Già Sandro Bernardi ha avuto modo di approfondire il carattere etico e quindi politico del paesaggio nel cinema italiano del Dopoguerra:

[…] mi sembra che nel cinema italiano, o almeno in una parte di esso, quella che si appropria dell’eredità neorealista e la prosegue in una ricerca epistemologica, accada qualche cosa di più. Il paesaggio qui spesso diventa, come vedremo, un vero e proprio personaggio, un interlocutore, molte volte uno spietato antagonista nei confronti dei personaggi; non è più uno specchio dell’anima, non è più spazio dell’azione ma, al contrario, diventa speso un luogo vasto, opaco, in cui l’azione e a volte anche i personaggi rischiano di perdersi; una soglia appunto in cui s’intravedono i limiti della cultura e della conoscenza.

Arrivando a definire come:

Paesaggio non è dunque da intendere solo come tema iconografico comune al cinema italiano, che sarebbe ben poco (non basterebbe scoprire quanti pittori sono citati in un film di Antonioni o di Visconti), ma soprattutto come problema culturale estetico-antropologico.

Moderno senza utopia
Anche nel cinema più recente il paesaggio assume un ruolo fondamentale riuscendo ad essere, da una parte, vero e proprio personaggio, manifesta rappresentazione di una certa Italia, e dall’altra luogo simbolico di una morale del nostro Paese. Per essere chiari: pensiamo ai modernissimi e razionali spazi architettonici del primo episodio di Strane storie – Racconti di fine secolo (1994, di Sandro Baldoni) o di Tutta la vita davanti (2008, di Paolo Virzì), dove l’architettura iperfunzionalista e modernista nel cemento delle moderne metropoli indica una crinale verso cui il nostro Paese si è affacciato, quello della urbanizzazione selvaggia, di un modernismo architettonico senza anima, di una cementificazione degli spazi extraurbani o periferici che hanno generato mostruosità etiche e sociali; dall’altra sono il controcanto simbolico di una modernità che ha fallito che ha portato il pianeta sull’orlo del baratro ecologico ma ha anche snaturato i rapporti interpersonali. Un paesaggio freddo, gelido, razionale e funereo. Basti pensare all’abbondare dei centri commerciali nella rappresentazione del nostro Paese, per esempio in Non pensarci (2008, di Gianni Zanasi) dove un altro tema paesaggistico, si insinua: quello della provincia felix. Di una provincia italiana ricca eppure chiusa, razionalmente votata ai soldi e alla sicurezza delle pareti domestiche. Vale per le villette “carine” della Rimini di Zanasi, ma ancor più per il Nordest di Primo amore (2003, di Matteo Garrone), dove il territorio segue la legge (ormai patologia) della ricerca della purezza, della raffinatura totale sulle cose (l’oro che il protagonista lavora) e sulle persone (la pratica masochistica della perdita di peso). Una razionalità e un benessere pagato a caro prezzo attraverso una disciplina disumanizzante.
Ma la materia paesaggistica più potente in chiave politica è sicuramente de L’imbalsamatore (2002, di Matteo Garrone), in cui povertà e ricchezza, bello e brutto, pacifico e violento, incluso e escluso si richiamano continuamente e hanno il loro punto di forza simbolico proprio nel mostro architettonico di una sorta di grottesca volontà razionalistica, ben presto marcita e messa in rovina.
Garrone è un autore che ha da sempre utilizzato il paesaggio come ruolo, come funzione, come oggetto privilegiato di uno sguardo morale, basti pensare a Terra di mezzo (1997), dove – indicato fin dal titolo – Roma non è rappresentata nei suoi monumenti, nel centro, bensì nelle terre di mezzo i terrain vague della periferia dove si accalcano gli esclusi del ricco benessere occidentale.
Ma, come sottolinea bene anche Augé, una società che permette questa esclusione sul proprio territorio è evidentemente malata anche nei suoi centri nevralgici, nelle sue città/esposizione, come riesce efficacemente a sottolineare Paolo Sorrentino nel suo Le conseguenzae dell’amore (2004). La Lugano perfetta, pulita, razionale, funzionale, patria di interessi finanziari, si rimpingua di soldi sporchi della malavita organizzata. Accoglie nei propri perfetti e “igenici” caveau il frutto di una vita violenta e selvaggia che per quanto addomesticata (il ragioniere recluso in una ritualità senza sentimenti) esplode prima o poi nella sua più genuina irruenza fisica (l’amore, la violenza).
Secondo una modalità che caratterizza il discorso sulla società contemporanea il mondo occidentale dell’attuale urbanizzazione si dipana attraverso una dialettica fuori/dentro, centro/periferia, inclusione/esclusione. In questo senso la doppia anima della Napoli di La guerra di Mario (2005, di Antonio Capuano) è sintomatica: da una parte una borghesia illuminata che abita nelle ville lussuose, lontane dai contesti sociali difficili dove invece Mario ha vissuto la sua personale guerra. La donna che ha in affidamento il piccolo Mario è costretta a passare da scenari diversi, attraversare luoghi fisici e antropologici contigui e differenti: in particolare i mille luoghi di una periferia disastrata secondo un modello parigino di centro e banlieu che definisce i rapporti umani e il sistema paese Italia. Così per esempio Vincenzo Marra nel suo Vento di terra (2005) impone allo spettatore la presenza incombente del mostro architettonico delle Vele di Francesco Di Salvo che caratterizza Scampia, in maniera da legare inesorabilmente il destino sociale di un certo ceto e la sua convivenza fisica con modelli architettonici desolanti, disumanizzanti. Non si tratta tanto di collegare ad una semplice forma sociologica il rapporto uomo e spazio, quanto di riuscire a fare balenare nello spettatore la contiguità e la dialettica incessante tra gli uomini, i loro comportamenti e la loro etica e lo spazio che vivono che costruiscono e che trasformano, una lezione che certo cinema del dopoguerra italiano ha praticato con eccellenza (pensiamo a Pasolini e Antonioni su tutti).
Come non leggere in queste architetture (le Vele di Di Salvo ma anche il quartiere “a rischio” Zen di Vittorio Gregotti a Palermo) il naufragio di un certo modello economico e sociale, il declino di una visione nata come utopica ma poco legata alla concretezza della quotidianità, un male di cui l’Italia soffre in tutti i suoi “reparti”. Le fatiscenti architetture razionaliste sparse nel nostro territorio e spesso abbandonate a se stesse o in miserevole stato, aprono percorsi nella nostalgia e nel rammarico, come uno sguardo dal futuro su quelle “mani sulla città” che la politica italiana ha permesso o ha addirittura realizzato.

Banlieu
La periferia e l’incapacità di pensarla, di costruirla, di renderla abitabile a partire da un lavoro sociale e, potremmo dire forse persino antropologico, diviene la nuova frontiera urbana. Nel centro, nel contesto, eppure esclusa, così come la divisione tra cittadina dipende proprio da questa dialettica tra inclusione ed esclusione. Forza cani (2002, di Marina Spada) e Fuori Vena (2005, di Tekla Daidelli) realizzano per esempio un atto politico proprio nello scegliere di dipingere una Milano “altra”, alternativa ai monumenti e alla moda, alla piazza finanziaria e vanno nel cuore di un progetto alternativo tra centri sociali, case occupate e spazi autogestiti. Fanno emergere l’immaginario di una Milano che ha un altro punto di vista e che sceglie una diversa prospettiva, sceglie o è costretta, come in Fame chimica (2003, di Antonio Bocola, Paolo Vari), in cui la vita di alcuni giovani di una periferia milanese viene resa plasticamente in quella sorta di luogo centripeto dell’azione che è il giardinetto condominiale, frutto di un’azione urbanistica sul territorio minima, miope, disgregante.

La nostalgia
La campagna ormai in abbandono e il Sud dalla situazione sociale ed economica sempre più complessa diventano i luoghi di una nostalgia lontana che assume diverse coloriture. Un esempio su tutti è la Sicilia di Giuseppe Tornatore, da Nuovo cinema Paradiso (1988) a Malèna (2000). Ma si mostra con forza anche la Puglia che per Sergio Rubini è una terra mitica e arcaica e nello stesso tempo, magica proprio perché irreale, sognata, immaginata: in Tutto l’amore che c’è (2000) è l’infanzia, in L’anima gemella (2002) è la terra arcaica, materna e magica, in L’amore ritorna (2003) è la nostalgia autobiografica, in La terra (2006) è il luogo dove tornare, è la terra che chiama all’origine.
Arcaica e magica appare anche nell’interesse “antropologico” di Edoardo Winspeare in Pizzicata (1996), Sangue vivo (2000) e Il miracolo (2003) o dei Fluid Video Crew di Italian Sud Est (2003).
Mentre molto più reale negli edifici fatiscenti, nelle ferrovie antiquate, nelle periferie vicine alla baraccopoli, appare la Puglia di in Lacapagira (1999) e Mio cognato (2002) di Alessandro Piva. Proprio quest’ultimo film di Piva è sintomatico, assieme, per esempio, al già citato Tutta la vita davanti o Agata e la tempesta (2004, di Silvio Soldini) di un ricorso alla nostalgia e allo stesso tempo alla chiave comica e in alcuni casi addirittura grottesca, tutti topoi della grande stagione della commedia all’italiana, sguardo politico quanto pochi altri all’interno della nostra storia cinematografica. Il cinema come critica al presente, sberleffo, ironia e grottesco. Sguardo critico e morale e di perciò politico.

L’apocalisse
Non c’è invece nostalgia né critica costruttiva in Ciprì e Maresco, per loro l’apocalisse è ormai avvenuta, non ci sono che ruderi e sterpaglia. Il terrain vague è l’orizzonte visivo tout court. Palermo diviene il metro e il paragone dell’intero universo, non la Palermo monumentale e turistica, ma, appunto, una Palermo in rovina, apocalittica, fatta di antri e grotte, di case diroccate, di rovine.
Cosa è accaduto è chiaro in Come inguaiammo il cinema italiano – La vera storia di Franco e Ciccio (2004) dove nella documentazione storica sui comici palermitani Franco Franchi e Ciccio Ingrassia si ricorda una città dove il boom economico e la speculazione edilizia che ne è conseguita abbiano inesorabilmente rovinato il paesaggio urbano. Dal “sacco di Palermo” alla fioritura continua dell’abusivismo edilizio, la città perde la sua identità, come hanno modo di affremare Ciprì e Maresco:

Intanto Palermo non ha più neanche le rovine. Esteticamente è un orrore. Una volta c’erano da un lato quartieri e rovine, e una Palermo borghese schifosa dall’altra parte. Ora è una Milano 3 in cui dilaga una mentalità manageriale, nel senso dell’arraffare i soldi della Comunità Euoropea.

Il cinema di Ciprì e Maresco porta all’eccesso un processo architettonico, visivo e morale e propone la fine della Storia che combacia con l’arcaico e il primitivo: post-atomico e primitivo convivono in uno spazio totalizzante e brullo, decisamente la più completa e potente metafora del vuoto culturale del nostro paese.

Abbiamo cercato di raccontare Palermo secondo un altro riferimento estetico, secondo altri criteri. Palermo è secondo noi il luogo ideale in cui aspettare il giudizio universale o l’esplosione nucleare, la immaginiamo all’indomani di questo estremo evento, in cui sono andati via e sono sopravvissuti come scarafaggi solo i nostri personaggi, mostri di una bellezza imprigionata. Sono corpi vivi-morti che molto spesso si integrano, facendo tutt’uno con il paesaggio che noi raccontiamo. Sono corpi apparentemente immobili, apparentemente in attesa, non si sa bene di cosa, all’interno dei quali invece si intuisce scorra una vita misteriosa, una vitalità o comunque una tragedia, una passione, un desiderio rimasto pietrificato. Corpi che forse esploderanno, segnati da questa doppia esistenza, fuori-dentro, da questo doppio movimento, implosione-esplosione, che diventano poi quasi dei fantasmi, delle visioni.

Paesaggi italiani
Sembra quindi il paesaggio, come nella tradizione italiana neorealista, a concentrare su di sé l’attenzione al territorio, al nostro Paese e al nostro sguardo. Se concediamo ancora molto al macchiettismo, che deriva dalla commedia all’italiana, nel disegnare i personaggi, nel paesaggio, invece, sembra trovarsi la prosettiva più sana, la necessità più acuta dello sguardo del cinema italiano contemporaneo, persino le metafore migliori: insomma la parte migliore dell’ispirazione politica (in senso lato) del nostro cinema che va, tra l’altro, di pari passo con la crescente qualità del nostro documentario.