A prima vista la messa in scena di Gomorra di Matteo Garrone sembra semplice, eppure ad uno sguardo più approfondito emerge quello che già le emozioni ti avevano suggerito: si tratta di una semplicità cercata, complessa nella sua capacità di essere efficace. Le diverse storie si intrecciano come blocchi dando persino l’impressione di una freddezza… rimaniamo così davanti all’orrore delle immagini come pietrificati; il vortice che imprigiona i personaggi sembra inesorabile. La colonna sonora da questo punto di vista è perfetta: perfetta perché quasi sempre assente come musica ma ben presenta con le modulazioni delle voci, i piccoli rumori come quelli dei soldi contati e i laceranti colpi degli spari.
Blocchi di quotidiana violenza, di quotidiana assuefazione al male. Garrone sta sui volti (e che bei volti riesce a trovare), sta attaccato ai corpi degli uomini, li ascolta, li vede correre, avere paura, gridare, spacciare. I corpi ma anche gli spazi, in particolare le “Vele” di Scampia che diventano una sorta di micro-universo dove l’illegalità può anche assumere aspetti quasi perbene (pensiamo al personaggio del “ragioniere” che va a distribuire le “pensioni” alla gente).
Aspetti di una stessa de-regolarizzazione della vita, come l’imprenditore che con grandi mezzi tecnologici e con una dote di bei vestiti, macchine e “fare” elegante, cerca siti per assorbire (in maniera “clean” come gli chiede ipocritamente un imprenditore del nord Italia) i rifiuti tossici.
Il male come patologia che risucchia già da bambini, che rende inevitabili le scelte, il male come organizzazione para-statale che si innesta nelle nostre città, nel nostro tessuto sociale. Il male come impudenza, persino come patologia dell’anima nella storia assurda dei due giovani convinti di diventare i nuovi boss della zona e che finiscono nel peggiore dei modi, ammazzati e spazzati via da una scavatrice come immondizia comune.
Alle “Vele” di Scampia, che creano un’assurda architettura del male che pare un quadro di Escher, fa da contrappunto una campagna che non ha più niente di ridente, spoglia, infettata, pronta ad essere riempita di nuove scorie per fare funzionare questo assurdo mondo… ma Garrone, con la complicità di Saviano, non è superficiale e ci fa capire come l’assurdo nasca da una cultura che fa del denaro un valore: da qui una guerra assurda tra gli “inclusi” e gli “esclusi”, nuovi selvaggi in grado di ricreare un proprio mondo con i loro dirigenti, la loro polizia, le loro industrie, la loro rete sociale, persino un loro welfare.
Un film potente quello di Garrone, profondo, una stilettata al cuore del nostro qualunquismo. Mi ha ricordato certi film sui quartieri degradati di Los Angeles, con la differenza che Garrone non cerca la seduzione delle immagini, non vuole farci provare il “brivido caldo” della mitologia della delinquenza spacciata come denuncia, ci impone un film bello e crudele, mai seducente. Offre un cinema che sa ritrovare nel rigore e nella compattezza la bellezza.