La famiglia Savage: tra scoiattoli e zombi finalmente un buon film

Come possa essere Alvin Superstar ve lo lascio immaginare… mio figlio di 5 anni l’ha molto apprezzato, ma nella sua personalissima classifica non supera né Wallace & Gromit (qualunque cosa del duo di plastilina) né Giù dal tubo e tanto meno L’era glaciale e Gli Incredibili.

Grande delusione per Io sono leggenda: l’ennesimo adattamento del romanzo di Richard Matheson è un po’ fiacco. Dobbiamo assorbirci la pareformance “fighetta” di Will Smith che quando non è diretto da, uno a caso… Michael Mann, evidenzia paurose defaillance. Tra esercizi ginnici, battute di caccia altamente atletiche e, ovviamente, qualche sgommata adrenalinica, il nostro non dimentica di vestirsi all’ultima moda… Un film a cui se togli il sonoro perdi praticamente il thriller. La regia non sa fare altro che alzare i volumi dietro ad angoli e porte chiuse per farci sobbalzare… a livello visivo, ma soprattutto narrativo, poche trovate e si nuota in un mare di “già visto”. Meno scontate e più accattivanti sono le immagini di New York post-apocalisse, deserta, con la natura che se ne appropria poco alla volta. Sono soprattutto le immagini iniziali, eleganti e di grande effetto. Poi si entra in un meccanismo da sceneggiatura “usa e getta” e non si vede l’ora di uscire dal cinema.

Interessante invece La famiglia Savage di Tamara Jenkins che io avevo già apprezzato in L’altra faccia di Beverly Hills dove, nel quartiere simbolo della ricchezza americana, si puntava l’attenzione sui sobborghi poveri, le lunghe file di case tutte uguali dove un’umanità allo sbando cerca di trovare un significato alla propria vita.
Nello stesso modo ne La famiglia Savage troviamo personaggi che sono assolutamente inadatti e inappropriati… a tutto. Sono goffi e imbarazzati, sono troppo grassi o troppo vecchi o troppo stupidi. Il ritratto della Jenkins è pieno di umanità e al contempo desolante. Che sia l’assolata West Coast dalle casette colorate con giardino e palme, e persino le siepi sagomate, abitato da vecchi che attendono la morte e obesi figli che attendono di spartirsene gli averi. O che sia l’East Coast fredda e invernale, colpita da pioggia e neve, inospitale, quello che sembra mancare è l’umanità
E’ un mondo perfettamente razionale quello che mette in scena la Jenkins: fatto di casette e ospedali, uffici, ospizi e università, autostrade e appartamenti. Un universo “sulla carta” pacificato, eppure un universo per bambini viziati (come la colonna sonora che sembra una musica infantile suggerisce) in cui sembra davvero difficile sopravvivere: la protagonista infatti sogna il successo come scrittrice e intanto svolge lavori d’ufficio che odia, creandosi con la fantasia un mondo da commedia e aiutandosi in questo da una ricca scorta di medicinali di ogni tipo. Il fratello, che appare più risoluto, è invece incapace a decidere, goffo e impacciato, anch’egli rifugiato in un proprio mondo abitato da libri e aule universitarie ma in balia delle emozioni che non sa come affrontare.
La Jenkins ha la capacità di affrontare un piccolo mondo e elevarlo a “cartina di tornasole” dei tempi che viviamo. Dietro a questo strano triangolo composto dai due fratelli e il padre morente si agita un’America in crisi di ideali, sommersa da simboli e alienata. La bravura registica sta nel fatto che tutto è realizzato attraverso brevi tocchi, sfumature, per mezzo di una regia semplice e avvitata continuamente sui personaggi… li indaga, li interroga, si vede che ne è affezionata, ma non può non rilevarne le mancanze. Il mondo che li circonda, che mostra questa apparenza calma e razionale, al contatto con i personaggi mette in evidenza un lato oscuro, schizofrenico, irreale, persino brutale e soprattutto cinico. Non è un caso che sui titoli di coda appaia, tra i produttori, quell’Alexander Payne che, con il suo piglio ironico, con Sideways ci ha regalato uno dei ritratti americani più dolenti e disperati degli ultimi anni.

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  • Antonio B. |

    Di “Io sono leggenda” ho trovato fastidiosissima la svolta narrativa a sfondo mistico. Troppo facile. Smith, invece, non mi è dispiaciuto, ma in mezzo al nulla (!), la sua prova si dimentica facilmente dopo la fine del film.

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