Cinquant’anni fa usciva nelle sale La dolce
vita di Federico Fellini e ad oggi “non c’è titolo di
film italiano che sia conosciuto in tutto il mondo. Famosissimo ancor prima che
il film uscisse, questo titolo ha finito per significare di tutto: uno stile,
un’epoca, un modo di vivere. Un nome capace di evocare Italia e italianità
ancor più e ancor meglio della pizza, degli spaghetti e della camorra”, questa
l’opinione di Antonio Costa, professore di cinema all’Università di Padova che
ha appena fatto uscire un libro che
analizza la genesi, la storia, il testo e la fortuna critica di questa
geniale opera del regista romagnolo (Federico Fellini. La dolce vita, Lindau). Il titolo steso è diventato proverbiale, ha segnato un’epoca,
così come la mitologia del “paparazzo”, le passeggiate dei divi per via
Vittorio Veneto e soprattutto le loro “folcloristiche” bizze che animavano le
nottate romane. Quell’Italia con le sue contraddizioni, forse mai risolte, con
quella vitalità, con quel boom che stava preparando un nuovo tipo di italiano e
nuovi modelli urbani, quella ricchezza che arrivava finalmente dopo le
privazioni della guerra, quel mondo di paillettes e lustrini, di flash e
lambrette, di abiti eleganti, ponevano l’Italia nella Modernità (quella
Modernità che contemporaneamente Antonioni andava a scavare nei suoi vuoti
profondi). Il “Bel Paese” diventava patria del cinema europeo con Cinecittà che
attirava produzioni hollywoodiane e tutto il seguito di star; patria della moda
e degli stilisti, del design e dei motori. Ce n’è per abbandonarsi alla
nostalgia o quanto meno per sfogliare malinconicamente l’album dei ricordi di
un periodo mitico, reso tale proprio da film come La dolce vita. Ci si può allora abbandonare al ricordo con la bella mostra che il
Museo del Cinema di Torino ha da poco inaugurato dal titolo Gli anni della
Dolce Vita (19 gennaio – 21 marzo). Una mostra
fotografica con gli scatti di Marcello Geppetti e Arturo Zavattini, un percorso
emozionante in un’Italia d’altri tempi: John Wayne in abito bianco e cappello
da cowboy che si lascia fotografare nelle strade di Roma, Warren Beatty e
Nathalie Wood che sfuggono ai paparazzi, Marcello Mastroianni durante le pause
di lavorazioni, in giro per Roma o ad assaggiare le paste in un forno, e ancora
Brigitte Bardot, Audrey Hepbourne, Kirk Douglas, Liz Taylor e Richard Burton,
Romy Schneider, Alain Delon… inseguimenti e zuffe con i fotografi: Anita
Ekberg, per esempio, che minaccia alcuni di loro. E poi gli ambienti: dalla
Roma più turistica dei monumenti storici ai night, i club privati, i cabaret, i
ristoranti (c’è un Alberto Sordi che si improvvisa cantore con la chitarra al
mitico Meo Patacca). Scatti che parlano di un’epoca ma anche di una visione
d’Italia, un marchio di fabbrica Made in Italy che è forse l’ultima potente
immagine di noi che siamo riusciti a esportare all’estero.
E non è un caso che fa parlare (a dire il vero
più all’estero che qui da noi) Nine, il musical di
Rob Marshall che tenta l’improbabile, fare un remake di 8 ½, il film più personale, biografico,
autoriale di Fellini. E infatti nel film di Marshall di tutto l’universo ricco
e stratificato di Fellini rimane il gusto estetico, i vestiti, il mito della
Lambretta, il fascino del visual italiano che imponeva lo stile nel vestire,
nelle pettinature, nella fotografia, nel design. Rimane l’aspetto marginale del
film ma si veicola la nostalgia per un Made in Italy datato e un po’ vintage
che evidentemente fa ancora presa all’estero, che ancora veicola la nostra
immagine o, quanto meno, la nostalgia per come eravamo. A ben guardare anche il
lodatissimo film dello stilista Tom Ford, A Single Man, è un evidente omaggio a certo cinema d’autore italiano, allo stile
italiano, nonostante si parli di un professore californiano. Ma come non vedere
nei vestiti, la spider, i tagli delle inquadrature, chiari riferimenti a
Fellini e Antonioni, allo stile Italia, uno stile, ahimé, vintage, per
l’appunto.
Un paio di anni fa uscì su un importante
quotidiano tedesco una ricerca per cui i tedeschi sembravano invidiare
(nonostante tutto) gli italiani, per il cibo, per le bellezze artistiche,
architettoniche e paesaggistiche del nostro Paese, per il clima, per il “savoir
faire” italiano. Ecco, forse viene da chiedersi se questo mito non sia
anch’esso frutto di un’immagine vintage che tende a sovrapporsi a quella vera
del nostro Paese. Tanto più che i nostri film e i nostri libri contemporanei
difficilmente riescono ad uscire dai confini patri e nei corsi di cinema degli
Istituti italiani all’estero, dei Dipartimenti di italianistica, difficilmente
si può rintracciare qualcosa dopo gli anni ’60, come dire: siamo forse
costretti in un’immagine di repertorio, ad un “Amarcord” dell’immaginario
italiano che ci fissa una volta e per sempre nella “dolce vita”?