Vedere, vedere, vedere! Sempre meglio, sempre di più, un istinto atavico, incontrollabile, una pulsione voyeurstica che alla fine dell’800 sfocia nelle sue più “naturalistiche” possibilità con l’invenzione del cinema. I Lumière sguinzagliano operatori in tutto il mondo per riportare pochi secondi delle meraviglie del nostro globo, un carosello concentrato di panorami mozzafiato: grandi città industriali, misteriose rotte orientali… ma non è abbastanza: l’uomo fa di questo sguardo nuovo un veicolo per leggere il reale, per sublimarlo, lo racconta, dando evidenza simbolica alla sua esperienza di uomo moderno, sempre cercando di liberare e nello stesso tempo contenere il proprio impulso scopico. Con il cinema della grande Hollywood nasce anche il cinema pornografico, i filmetti casalinghi osè, la pruderie borghese del ‘900. Ma anche gli spettacoli di morte che arrivano a spingersi fino a dove è persino troppo osare: le immagini dei campi di concentramento riprese dai registi e dagli operatori che stavano al seguito dei soldati americani in Europa. La frattura è ormai evidente ed è tra cosa si può e cosa si deve vedere. Il resto del secolo bascula in questa doppietà e ambiguità: da una parte si istituzionalizza in qualche modo l’immagine pornografica, dall’altra la televisione democratizza la visione portandola nelle case e dotandola in seguito del telecomando. Ma lo sguardo cerca sempre di eccedere: negli anni ’70 si diffonde il falso storico degli snuff movie, video casalinghi di torture, stupri e uccisioni che le leggende urbane vogliono reali, mentre Hollywood si da allo splatter movie e al disaster movie. Ma poco alla volta la presunta democratizzaione del video diviene “arma di disitruzione di massa”, come ci ricorda Christian Uva citando Paul Virilio. Uva è infatti l’autore di un saggio dal titolo Il terrore corre sul video. Estetica della violenza dalle BR ad Al Qaeda (Rubettino), dove si indaga proprio questo intrinseco legame tra immagine e morte, con particolare attenzione ai mezzi audiovisivi moderni e “leggeri” (dal VHS al video digitale) e le moderne strategie di terrorismo, quell’ “orrorismo” di cui parla Adriana Cavarero, che per l’autore si può fare iniziare dalla produzione video delle Brigate Rosse e in particolare con il caso del processo a Peci . Il videotape, pratico, portatile, economico, diviene un’arma per mostrare e impaurire. Uva parte proprio dal caso Pecci per arrivare alla proliferazione di immagini terroristiche che caratterizzano i nostri tempi: si inizia con la prima guerra del Golfo – la prima guerra mediale – poi con le immagini dell’11 settembre e delle sue conseguenze: le immagini di Abu Ghraib, i videomessaggi di Bin Laden, le decapitazioni di Al Quaeda.
La diffuzione dei video digitali e la loro praticità non solo in fase di ripresa ma anche di diffusione per il tramite del computer e delle televisioni satellitari, permette a questi prodotti (film?) di rimbalzare da un parte all’altra del pianeta con una forza di penetrazione senza precedenti. Uva accenna al caso del ventenne Samir Khan che dall’America, armato di un computer e di una connessione Internet, raccoglie e diffonde il filmati di Al Qaeda, il rimonta, li sintetizza, li sottotitola, gli aggiunge a volte una colonna sonora e in questo modo li lancia nel mondo… prodotto estetico e di propaganda allo stesso tempo. I dati di questo fenomeno sono impressionanti “È soprattutto negli Stati Uniti, – ci ricorda Uva – in effetti, che i siti specializzati nel rilancio del videoterrorismo segnalano il maggior numero di contatti, come avviene ad esempio per il sito www.ogrish.com sul quale già nel 2004 si sono raggiunte punte di 750.000 contatti quotidiani per i filmati delle decapitazioni. D’altronde anche in Europa c’è chi, come Abu Saleh, cittadino tedesco di 21 anni, ama quelle produzioni perché pare di vedere un film di Hollywood. dal punto che i video di Al Qaeda diventano una vera epropria passione che lo spinge a frequentare regolarmente due volte a settimana un Internet Point di Berlino per non perdersile ultime “uscite”…”
La riflessione di Susan Sontag che era parsa un po’ provocatoria per cui “fare la guerra e scattare fotografie sono attività assimilabili” si avvera nella nuova dimensione bellica contemporanea dove come non mai il verbo “to shoot” può significare sia “sparare” che “fare riprese”.