Quando il giovane bello e un po’ trasandato – così cool con abiti ombrosi e barba fina – inizia a passeggiare per Parigi dopo che gli è stato comunicato di avere il cuore malato e di essere così probabilmente condannato a morte nel giro di poco tempo e attaccano le note di piano di Eric Satie, mi sono subito preoccupato… e facevo bene! Da lì in avanti Parigi, il nuovo film di Cédric Klapish è stato una rutilante catena di luoghi comuni, di immagini stereotipate e di narrazioni già viste e sentite. Recitato come una soup opera e con una sceneggiatura degna di quel genere, Parigi è un racconto corale di una banalità sconcertante che cerca di prendere il pubblico allo stomaco con un carosello di buoni sentimenti: tra morte di padri, bambini comprensivi e giocosi e l’immancabile ragazzo africano che sfida il mare per arrivare nella tanto agognata Francia. A metà del film pensavo: non avrà il coraggio Klepish (che ci aveva abituato a film leggeri e carini come Ognuno cerca il suo gatto e L’appartamento spagnolo, ma anche noiosi quasi-melò come Bambole russe) di finire il film con il giovane che va all’ospedale, ricollegando in quel viaggio un po’ di cartoline di Parigi e tutti i personaggi… ebbene si, ha avuto il coraggio. Temo che Klapish sia stato morso dal tarlo del cinema d’autore a tutti i costi. Un cinema fatto per se stessi, che pensa che un po’ di musica triste, facce imbronciate, voce fuori campo ed esempi di infelicità umana, conditi con alcuni bei piani-sequenza, una fotografia mirabile sull’immancabile tour Eiffel, fanno grande cinema. Una generazione rovinata dalla Nouvelle Vague da cui sanno trarre solo alcuni aspetti esteriori che poi ripropongono di continuo come una formula magica. Come se il cinema d’autore fosse un genere come gli altri, l’horror, il noir, il musical… alcuni nomi? L’ultimo Besson, Patrice Leconte, per esempio, tutti maestri nel fare cinema d’autore, non autori che fanno cinema!
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