Ho preso il mio tempo, e alla fine riesco mettere assieme un discorso, penso coerente, sul film di Sean Penn, Into the Wild. La storia, vera, narra di un giovane nauseato da un sistema sociale basato sul denaro, sugli oggetti, sugli status quo, ma soprattutto vittima di una violenza psicologica famigliare, così, appena laureato, decide di tagliare ogni ponte con il passato e soprattutto con la sua famiglia, dimenticare i soldi e avventurarsi a piedi, verso ovest… solo perché gli sembra una buona idea. Dopo molti incontri, in particolare con una coppia di hippie che praticamente lo adotta, la sua grande decisione è la natura selvaggia, il nord, l’Alaska, in totale solitudine. L’arrivo nel nord è carico di aspettative, passa l’inverno in un bus abbandonato cacciando e leggendo, da solo. Poi l’irreparabile: non trova più cibo, si avvelena con dei fiori, il fiume in piena non gli permette di ritornare alla civiltà e il nostro muore di stenti, riservando però ancora due pensieri importanti, uno a chi lo troverà, un cartello in cui si dice soddisfatto e felice delle sue scelte e della sua vita, l’altra al suo diario in cui per la prima volta accetta che la felicità è qualcosa che deve essere condiviso.
Una storia davvero bella, con un protagonista che non lascia per nulla indifferenti, così come i personaggi che incontra: dalla comunità hippie al vecchio Ron che vede in lui un figlio e un amico. Penn è in gamba proprio nel scegliere i volti, le situazioni, i dialoghi, nel mettere a confronto le persone e le loro storie personali. Eppure qualcosa nel film non mi ha convinto, anzi mi ha addirittura indisposto. Il fascino per la natura di questo ragazzo viene svolto da Penn attraverso immagini/cartolina più adatte a spot pubblicitari che a un film. Le continue riprese aeree, i movimenti di macchina a svelare il personaggio a contatto con la natura… tutto sa di glamour, di amore dell’immagine per l’immagine, tradendo così un vero trasporto esistenziale. Soprattutto le immagini del momento in solitaria sembrano essere prese a prestito da decine di film e di foto… ma non si tratta qui di un lavoro sul già visto, Penn non è un autore che rielabora e approfondisce un discorso sull’immaginario. Semplicemente si accontenta del già visto, di immagini riciclate e anche un po’ stantie, di un trasporto che sa molto di romanticismo d’accatto…. è davvero strano come sia riuscito a capire bene le persone e non sia riuscito a rendere invece il nocciolo del film, quella adesione struggente alla natura come specchio dei propri pensieri, della propria rabbia.
Vedere quindi un catalogo delle più belle immagini dei filmini turistico/promozionali dell’America, con una bell’attore quasi sempre in pose da fashion model, stonano, se non addirittura dissonano con la verità di certi momenti, di certi dialoghi, di certi volti.