Dopo quasi 10 anni di dibattito vale la pena affrontare ancora una volta il tema del cinema digitale.
Inizialmente il digitale sembrava la tecnologia in grado di sviluppare quel lato spettacolare che molto cinema americano ha da sempre ricercato. Le riflessioni sul cinema dell’effetto speciale e del wow effect di George Lucas, di James Cameron e Steven Spielberg … una tradizione che continua nel digitale 3D che sta impegnando in questo momento Cameron con il suo progetto Avatar, ma anche Peter Jackson e Steven Spielberg e il loro Tin Tin, ed infine Robert Zemeckis
Più sottotraccia è passata la “rivoluzione” del digitale cosiddetto “leggero”. Il digitale delle piccole macchine in grado di assommare leggerezza della troupe, economicità e maneggevolezza. Mentre Moretti era solito paventare, a causa di questa nuova “democrazia” cinematografica, l’avvento di una serie di registi della domenica. D’altra parte il “furbo” Lars Von Trier se ne impossessava per la definizione di un cinema libero, indipendente, sotto costo.
Da quel momento, che va collocato intorno alla metà degli anni ’90, a oggi, i risultati più interessanti sia a livello teorico che pratico possono ascriversi al documentario. Ne è convinto Fabrizio Grosoli nel suo intervento nel volume Il film documentario nell’era digitale a cura di Ansano Giannarelli (Annali 9, 2006 dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, Ediesse, 2007).
Dietro al fenomeno Micheal Moore c’è una lunga onda di documentaristi che l’epoca digitale ha posto alla ribalta. Ma perché è successo? Da una parte proprio per quelle caratteristiche tecniche che il digitale leggero propone: leggerezza, poter girare con una troupe ridotta, non doversi sobbarcare di ingenti apparati luci, non dover sottostare al costo della pellicola. Il documentario, che spesso è lavoro di paziente ricerca, di continue interviste, di “appostamenti” ad aspettare che i fatti accadano, si giova naturalmente di uno strumento così duttile ed economico. Il “fai da te” che il digitale permette, ha poi contribuito a fare emergere quanti erano messi da parte da un sistema produttivo complesso. Va inoltre detto che la sola possibilità di essere protagonisti di una ripresa ha imposto alla nostra società un sistema di visibilità diffuso di cui non sappiamo bene se siamo artefici o vittime.
Messi in condizione di vedere tutto e di riprendere tutto, viviamo in una sorta di documentario perpetuo: a volte siamo noi a volere questa celebrazione dell’essere guardati a tutti i costi (pensiamo ai filmini sul bullismo che tanto hanno imperversato lo scorso anno), altre volte siamo noi, registi casuali, artefici delle immagini della storia: pensiamo agli aerei dell’11 settembre, ma anche Abu Ghraib, le immagini rubate di Guantanamo, il G8 di Genova. Il regista casuale dell’epoca digitale è documentarista, reporter, filmaker… i suoi lavori possono essere home movie o diari, pamphlet, opere di found footage, docu-fiction (pensiamo all’opera dell’inglese Michael Winterbottom).
Per De Kerchove (intervistato da Cristiano Poian in “Close-up”, n. 22, 2008) non ci sono dubbi, “Quello che i ragazzi di oggi fanno con le loro videocamere portatili e mettono su Youtube, è cinema a tutti gli effetti.” Produzione e distribuzione (la rete) a portata di mano e così “Milioni di persone possono vedere un film di cinque minuti, nel giro di sole 24 ore, in una piccola finestra del computer a bassa definizione e con bassi tempi di ricarica senza spendere un centesimo. Potrà anche essere tecnicamente di scarsa qualità, ma è istantaneo e reale.”
Se Vedere è potere, come afferma Jean Luis Comolli nel suo testo omonimo (Donzelli, 2006), il potere si sta forse diffondendo, così come la capacità di informare. C’è quindi un cinema diffuso (alla fine basta un videofonino ormai) distribuito in rete: frammenti audiovisivi vanno a comporre nuovi testi, si assemblano a immagini nuove o di altra provenienza; il magazzino visivo del ’900 esplode nel 2000 e non è un caso che i problemi che risaltano con maggiore evidenza sono quelli legati alle modalità di catalogazione e all’impasse momentanea dei diritti d’autore. Ma oltre a ciò si propone un problema, diciamo, filosofico: la tecnologia audiovisiva, elettronica prima e digitale poi, non resiste alla tentazione di manipolare l’immagine, distorcerla (come faceva Nam June Paik,) fino perderne i contorni, la riconoscibilità. Va aggiunto a questo come la facilità di manipolazione dell’immagine digitale (W.J. Mitchell parla di ”mutabilità intrinseca” nel suo The Reconfigured Eye. Visual Truth in the Post-Photographic Era, Mit Press, 1992) pone alcuni interrogativi sui quali varrà la pena di soffermarsi nel dibattito sullo statuto delle immagini digitali… interrogativi che già si pone Antonio Medici (Il film documentario nell’era digitale): “Ci si potrà ancora fidare delle immagini digitali, con le loro folle moltiplicate al computer, i paesaggi e le città costruiti con gli algoritmi, i volti ritoccati dai programmi grafici? Come si configurerà la categoria di ‘documento’?”